LAURA CASNAGHI | Il crollo del ponte Morandi, l’impatto psicologico e le sue conseguenze
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Il crollo del ponte Morandi, l’impatto psicologico e le sue conseguenze

Il crollo del ponte Morandi, l’impatto psicologico e le sue conseguenze

Casnaghi L. “Il crollo del ponte Morandi, l’impatto psicologico e le sue conseguenze” State of mind

Lutto è la parola chiave per capire quello che sta accadendo e potrà accadere nei prossimi mesi alle persone che sono state coinvolte dal crollo del ponte Morandi. Il lutto è una condizione psicofisiologica che accompagna il sentimento di perdita di qualcuno, o qualcosa, che aveva un ruolo rilevante nella propria vita.

Il 14 agosto è una data che resterà impressa nel cuore dei genovesi e non solo: il ponte Morandi, snodo cruciale per il collegamento tra il Levante e il Ponente ligure, si è sgretolato sotto le ruote delle persone che lo stavano attraversando sui loro mezzi, davanti agli di occhi di abitanti e passanti, sopra le teste dei residenti e di chi lavorava lungo il torrente Polcevera.

Un evento del genere provoca sgomento, paura, e terrore difficili da dimenticare per chi ha vissuto l’evento in prima persona, per chi l’ha visto accadere, per chi ha preso parte ai soccorsi che si sono attivati subito dopo il dramma. Da subito il terrore di aver perso qualcuno ha attanagliato le persone che a Genova vivono, che in città hanno familiari e amici, che sapevano che i propri cari erano in viaggio sull’autostrada A10. Tutti i liguri hanno vissuto ore drammatiche in cui hanno temuto per qualcuno a loro caro. Molti comuni della riviera hanno annullato i festeggiamenti per il Ferragosto, in segno di lutto. Quando qualcosa crolla e crolla in modo definitivo, paura, angoscia, rabbia e profonda tristezza si susseguono in una morsa di dolore. Quando qualcosa crolla e crolla così ci troviamo di fronte ad un lutto.

Lutto è la parola chiave per capire quello che sta accadendo e potrà accadere nei prossimi mesi alle persone che sono state coinvolte. Il lutto è una condizione psicofisiologica che accompagna il sentimento di perdita di qualcuno, o qualcosa, che aveva un ruolo rilevante nella propria esistenza. E quel ponte, così importante per la viabilità genovese, tra i simboli del capoluogo ligure, era certamente “qualcosa di rilevante per molti”, tanto che uno dei commenti più ricorrenti è “potevo esserci io lì”. L’elaborazione del lutto prevede l’attraversamento di quattro fasi, che possono presentarsi in differenti sequenzialità, con differenti tempistiche e con differente intensità. Queste prevedono la fase della negazione e del rifiuto, la fase della rabbia in cui sono frequenti la ricerca di un colpevole o la presenza di senso di colpa, la fase della depressione che segue generalmente un momento di rivalutazione dell’episodio e delle proprie risorse, infine la fase di rielaborazione del lutto in cui avviene l’accettazione delle nuove condizioni di vita (Kübler Ross, 1990; 2002).

Ancora più intenso, è, e sarà, il sentimento dei famigliari delle vittime del crollo. Nel lutto (Onofri e La Rosa, 2015; Parkes, 2001) sono presenti emozioni diverse, intense e anche contrastanti: le persone in lutto provano profonda tristezza e al contempo intensa collera (sia verso sé stessi, per non aver impedito che la persona cara si trovasse in quella situazione tragica, sia verso coloro ritenuti colpevoli dell’evento), sensi di colpa irrazionali derivanti da pensieri del tipo “se avessi fatto, se avessi detto…” che si riferiscono a qualcosa che avrebbe potuto modificare l’esito dell’accaduto, preoccupazione per la propria incolumità dopo aver avuto un contatto ravvicinato con la morte e con la fragilità della vita, sentimenti di solitudine e di isolamento sociale, ma soprattutto stati di shock emotivo dovuti all’imprevedibilità dell’accaduto e sensazione di stordimento emotivo in cui ci si ritrova incapaci di provare emozioni.

A questi stati emotivi spesso si accompagnano sensazioni fisiche di vuoto gastrico, difficoltà a respirare e a deglutire, mancanza di energia, debolezza, ipersensibilità al rumore e senso di depersonalizzazione (cioè esperienze di irrealtà o sensazioni di essere distaccato dal proprio corpo o dalla propria mente caratterizzate da alterazioni percettive, senso del tempo distorto, intorpidimento) (Lindemann, 1944). Le persone in lutto si sentono incredule e confuse, possono fare molta fatica a distrarsi dal pensiero della perdita, questo può rendere difficile anche compiere attività di routine indispensabili per la sopravvivenza (come mangiare o dormire), temono che distrarsi dal pensiero della persona cara possa essere una mancanza di rispetto o indice di poco affetto nei suoi confronti, possono avere pensieri intrusivi (pensieri percepiti come fastidiosi, e non volontari) del deceduto in situazioni di sofferenza o avere allucinazione visive o uditive. Tutto questo porta spesso ad avere disturbi del sonno (sia nell’addormentamento che con la presenza di risvegli precoci), alterazioni dell’appetito (che può sparire oppure essere molto intenso), irrequietezza e attivazione motoria, desiderio di isolamento. Fin da subito possono essere messi in atto comportamenti di ricerca di oggetti del defunto e di luoghi dove era solito stare (ad esempio andare nella sua camera, cercare foto e immagini, rileggere i messaggi…), o al contrario possono essere messi in atto comportamenti di evitamento, perchè anche solo vedere qualcosa appartenuto alla persona scomparsa diviene insopportabile.

Questa condizione generalmente si attenua fino a permettere il ritorno alla vita pre-lutto in 12-18 mesi: oltre questo periodo di tempo il lutto viene definito patologico per l’incapacità del soggetto di accettare l’ineluttabilità dell’accaduto. Morti improvvise e tragiche possono portare allo sviluppo di un lutto patologico, in particolare in persone che non hanno come risorsa una buona rete sociale, che già in infanzia hanno avuto relazioni problematiche con i genitori o con le figure di riferimento (Bolwby, 1973) o che vivevano una relazione conflittuale con la persona che è mancata (Parkes, 1983). Le immagini del crollo così come le immagini dell’intervento da parte da parte dei soccorsi sul luogo dell’accaduto hanno toccato il cuore e le anime di molti. A tutti coloro che hanno valorosamente affrontato le macerie va un sentito grazie da parte di tutti noi, ed è importante citare anche le associazioni intervenute per fornire supporto e prevenire l’incorrenza di problemi psicologici. Dopo lo scuotimento e il supporto immediato viene il tempo delle esigenze pratiche, della sopravvivenza, di sistemare le cose sistemabili e lentamente riprendere a vivere senza che la tragedia ci inchiodi nel dolore e nella paura. Certo quelle verranno con noi, per un po’, probabilmente per sempre ma possiamo cominciare facendo piccoli passi verso la ricostruzione.

Dopo aver mosso i primi passi potremmo però accorgerci che certi sintomi non ci abbandonano, infatti un’altra conseguenza psicologica che potrebbe insorgere dopo eventi come quello del crollo del ponte Morandi, è lo sviluppo di Disturbi da Stress Post-Traumatico (PTSD) per chi ha assistito al crollo, per chi ad esso è sopravvissuto, e spesso anche per i soccorritori. Questo disturbo si presenta in persone che hanno assistito a situazioni in cui la propria vita o la vita altrui è stata in pericolo mortale (Liotti e Farina, 2011). Le persone che soffrono di PTSD hanno difficoltà a gestire i ricordi e i flashback dell’evento, che sembra loro ripresentarsi improvvisamente, reale e vivido, come lo stessero rivivendo. Questa situazione porta ad aumentare la vigilanza e le risposte di allarme, è spesso associata a difficoltà di concentrazione e problemi del sonno. Chi soffre di PTSD può provare intense e inopportune reazioni fisiologiche, difficoltà nel rievocare aspetti importanti dell’evento traumatico, persistenti convinzioni negative su di sé, sugli altri e sul mondo, ricorrenti emozioni negative di terrore, rabbia, senso di colpa o vergogna, in ultimo può insorgere la tendenza ad evitare di ricordare, pensare ed entrare in relazione con persone o cose che riportino all’evento traumatico. Ad esempio dopo il crollo del ponte Morandi, le persone che hanno assistito alla tragedia potrebbero evitare di camminare su ponti o strade rialzate, avere timore di prendere l’auto o di guidare in autostrada, evitare di andare in quel quartiere di Genova o nell’intera città.

Alcuni dei sintomi che sono stati citati possono rappresentare un fenomeno naturale e normale nelle settimane successive ad eventi di questa portata, un effetto di come la mente si riadatta una volta che percepisce un pericolo scampato e cerca di osservare e monitorare se la situazione è sicura. In questo lasso di tempo talvolta preoccuparsi eccessivamente di questi sintomi può essere controproducente, continuare a pensarci può portare ad un aggravamento degli stessi e ostacolare il normale riflesso di adattamento della mente. Non combatterci ma prenderli come il naturale modo con cui la mente si sta riadattando a uno shock e attendere prima di preoccuparsi è un passo cruciale in questa primissima fase. Se però questi segnali anzichè attenuarsi con il trascorrere delle settimane dovessero permanere o addirittura peggiorare, allora vale la pena considerare la possibilità che lo shock rischia di danneggiare la nostra qualità di vita più a lungo di quanto non gli sia naturalmente consentito.

Va ricordato infatti che un evento così grave, improvviso e inaspettato presenta tutte le caratteristiche che incidono sulla probabilità dei presenti di sviluppare un disturbo da stress post traumatico.

Nei prossimi mesi sarà importante monitorare le persone che sono state partecipi di questa tragedia. Invitiamo i loro amici e familiari a fare attenzione a comportamenti particolari e inconsueti: eccessivi comportamenti di evitamento (non prendere più l’automobile, non uscire di casa,…), isolamento, frequenti e persistenti stati di acuta attivazione fisiologica (tachicardia, difficoltà di respirazione, attivazione psicomotoria,…), cambi radicali di routine, negazione di quanto accaduto, atteggiamenti di censura della sofferenza (come mostrare eccessiva freddezza o mancanza totale di coinvolgimento), aumento improvviso dell’operosità e della dedizione al lavoro o ai propri compiti (la così detta “fuga nell’operosità” di Kast, 1996).

Parlare dell’accaduto, rendersi disponibili all’ascolto, fornire supporto pratico ed emotivo, creare situazioni di condivisione, aumentare la presenza, non censurare né ostacolare la manifestazione delle emozioni rispetto a quanto successo, accettare l’immodificabilità dell’evento e smettere di pensare a possibili soluzioni che si potevano mettere in atto per evitarlo sono buone indicazioni per arrivare alla riorganizzazione di sé e alla rielaborazione del trauma (Perdighe e Mancini, 2010).

Se però sentite che questo non basta a avvertite la necessità di un aiuto e supporto maggiore per voi o i vostri cari, non esitate a contattare i centri che offrono supporto per affrontare l’accaduto.

Ci sono cadute che non scordiamo mai
ci sono cadute dolorose,
cadute in cui ci facciamo solo un graffio,
cadute in cui quando ci alziamo ci diciamo “mi è andata bene”.
Ci sono cadute da cui alcuni non si rialzano,
mentre ci sono alcuni che vanno ricercando il brivido della caduta per continuare ad illudersi di essere più forti del destino.
Tutti prima o poi cadiamo
Il punto fondamentale non è tanto cadere ma rialzarsi
Ripartire
E continuare ad affrontare la nostra strada
Va fatto per noi stessi, va fatto per chi non ce l’ha fatta, e avrebbe voluto ma non ha potuto rialzarsi.
Ha fatto male,
fa male,
lo farà ancora e forse per sempre
ma per chi si è rialzato,
per chi può rialzarsi,
continuiamo a respirare,
continuiamo a camminare,
continuiamo a crearci sempre e di nuovo
(Mara Soliani)